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La morte dello zio Michele

di Bartolomeo di Monaco

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Quando ho ricevuto dalla figlia Maria la telefonata da San Prisco che mi comunicava la morte dell’ultimo dei miei zii, Michele Merola, mi trovavo nel Casentino, e per la precisione a Poppi, e da lì avrei poco dopo raggiunto la bella Abbazia di Camaldoli, centro di fede quasi millenario, dove ha sede la più alta autorità dell’ordine dei benedettini riformati, dalla veste bianca, fondato da San Romualdo.
Dei tredici tra fratelli e sorelle di mia madre Teresa Merola, lo zio era rimasto l’ultimo ancora in vita.
Sebbene abbia amato tutti i miei zii, confesso che un particolare affetto mi legava a lui.
Quando ancora eravamo adolescenti e trascorrevamo le nostre vacanze estive al paese natale dei miei genitori, San Prisco appunto, era sempre lo zio Michele che veniva a prenderci in carrozzella alla stazioncina di Santa Maria Capua Vetere.
Ricordo quegli anni meravigliosi nel mio “Omaggio a San Prisco”, presente in questo vostro bel sito.
Ma lo zio Michele non ha mai mancato, anche negli anni successivi, di rendersi disponibile per ogni nostra necessità. Sempre con entusiasmo e buon umore. Perfino si prodigava a dare consigli a mia madre sul modo di curare certe malattie. Aveva sempre pronto il nome della medicina che faceva al caso, e devo dire che funzionava. Era una sua bonaria vanità quella di vantare una tale competenza. Insomma, la malattia, purché leggera ovviamente, era una occasione gradita per conversare piacevolmente con lui sia per telefono, sia le poche volte che è capitato da noi, a Lucca.
La fortuna volle che nel 1965 fui assegnato alla Scuola allievi ufficiali di Caserta, che aveva sede, almeno allora, nella caserma “Orsi”.
Tutta la mia numerosa parentela era condensata in quell’area, e i miei genitori attutirono il dolore della mia partenza sapendo che mi mettevano nelle mani degli zii.
Così fu.
Lo zio Michele, ogni sera dei sei mesi che trascorsi a Caserta, all’ora della libera uscita, mi aspettava al posto di guardia, mi veniva incontro con il suo sorriso, mi abbracciava, ed in auto mi portava a casa sua. Non mi fece mancare mai nulla. Mi vestivo in borghese ed uscivo in giro per il paese e per i paesi vicini insieme specialmente con mio cugino Salemme Luigi. Ci divertivamo molto, e ciò mi consentì di trascorrere quei sei mesi di scuola, considerati da tutti i più duri da affrontare, con il sorriso sulle labbra e la folle spensieratezza della mia gioventù.
Ho rivisto lo zio uno o due anni fa, in occasione di una gita turistica che stavo facendo con miei compaesani lucchesi.
Avvertii che al mio arrivo avrei telefonato per un breve saluto.
Così fu. Giunto all’Hotel Vanvitelli, dove avrei trascorso la notte con mia moglie Raffaella, telefonai a Maria, e dopo pochi minuti ecco presentarsi nell’atrio lo zio Michele, condottovi dal figlio Bartolomeo (Meuccio).
Quando scesi per abbracciarlo, fu lui, nel tentativo forse di nascondere gli acciacchi dell’età – ma secondo me spinto da un impeto di rara vitalità giovanile che ancora possedeva – a venirmi incontro. Pronunciava il mio nome a voce alta, ed esso rimbalzava nell’ampio atrio, salendo fino al soffitto invetriato. Ero contento di scoprirlo così pieno di vita e di entusiasmo, e mia moglie si commuoveva nel vederlo serrato tra le mie braccia.
Andammo a casa sua, tornò a mostrarmi la camera dove ero nato, fiero che lì, tra quelle pareti, e in quell’aria inconfondibile del Sud, fossero conservate le mie radici. Come a dirmi: Tu sei diventato lucchese, ma è tra queste mura che hai respirato la prima aria della vita, e nessuno potrà mai cancellarlo.
Un lucchese, sì, ma uomo ancora e per sempre del Sud.
Ora toccherà alla mia memoria, sempre più debole, non lasciarsi sfuggire, e non consegnare all’oblio, quegli anni così splendidi.
Lo zio era l’ultimo legame che, attraverso i miei genitori, legava la mia lucchesità alla mia originaria meridionalità.
Devo fare in modo che un tale prezioso legame resti in me per sempre.
 


Lucca, 13 maggio 2012

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