Saverio Boccardi
sorvegliato politico (1848-1856)
di Luigi
Russo
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Introduzione
Saverio
nacque in San Prisco l’1 novembre 1798 da Giovan Battista e
Maria Giuseppa Trirocco (figlia del notaio Pompeo e Marianna
Palmiero).
Egli
apparteneva ad una delle maggiori famiglie di San Prisco,
proveniente da Capua, ma stabilitasi nel casale da più di due
secoli.
Il padre
Giovan Battista morì in San Prisco il 10 agosto 1836e lasciò i
suoi beni a tutti i figli e destinò il primogenito Cesare come
amministratore. Le proprietà dei Boccardi erano concentrate
soprattutto in San Prisco, con una rendita di 1578,80 ducati,
dove possedeva: 78 moggia di terreni, 3 giardini di cui uno di 2
moggia, un palazzo con varie botteghe in Strada della Piazza
e altre due abitazioni più piccole in Via Cupa.
In Capua
avevano un palazzo nel Vicolo Boccardi, nei pressi della
Strada S. Giovanni con due piccoli giardini murati. In
esso risiedevano Marcantonio, percettore di Fondiaria, e il
sacerdote Sebastiano, tesoriere della cattedrale capuana. Il
resto della famiglia viveva in San Prisco: il primogenito Cesare
e Cristina, che aveva sposato Giuseppe Vetta di Capua. Marianna
era defunta, ma aveva lasciato dei figli in Cusano con l’altro
genitore Francesco Santagata. Anche Pasqualino era morto ed
aveva lasciato la sua parte di eredità al fratello Marcantonio.
Le vicende
del 1848
Saverio
Boccardi, insieme ad altri personaggi, fu coinvolto nei moti
rivoluzionari del 1848 che interessarono la provincia di Terra
di Lavoro. In particolare egli fu accusato di aver devastato la
rete ferroviaria in Santa Maria di Capua e di aver impedito la
segnalazione telegrafica in San Prisco (sito in località
Croce Santa) al governo napoletano per impedire l’arrivo
delle truppe regie.
Per
quest’ultimo reato vi erano due testimoni a confermare tale
accusa: l’impiegato addetto al telegrafo Mele e il consigliere
della Gran Corte Criminale Ciardulli (che nel periodo in
questione si trovava in Caserta.
In seguito il
Boccardi, per sfuggire l’arresto, emigrò insieme ad altri
soggetti coinvolti e si diresse con molta probabilità a Londra,
dove si trovavano molti esuli politici italiani. Sulla base
delle informazioni in possesso dal Ministero degli Affari Esteri
il Boccardi da Londra si era trasferito in Marsiglia, altra
città piena di profughi italiani, e quindi in Genova.
Dal
sequestro dei beni al ritorno nel regno
Il governo
borbonico per colpire gli emigrati politici e le sue famiglie
cominciò ad attuare i sequestri dei loro beni perché spesso
erano benestanti. Tale strategia fu attuata anche nei confronti
di Saverio Boccardi nel 1850, la cui rendita, amministrata dal
fratello maggiore don Cesare, fu calcolata in 220 ducati annui.
Fu stabilito che il fratello Cesare versasse tale somma nella
Cassa di Ammortizzazione (attraverso la Ricevitoria Generale di
Terra di Lavoro). Questi prima si obbligò davanti all’intendente
di Terra di Lavoro, ma poi cercò a lungo di procrastinare questo
pagamento adducendo varie scuse.
Il ministro
dell’Interno, avvisato puntualmente dall’intendente, ordinò di
procedere al suo arresto se non avesse provveduto immediatamente
a versare la somma. Tale minaccia, comunicatagli dall’ispettore
di polizia di Santa Maria di Capua (a cui era stato ordinato in
realtà di procedere all’arresto) ebbe subito il suo effetto
perché il versamento fu fatto verso la fine di dicembre.
La resistenza
del Boccardi a versare la somma per conto del fratello Saverio
si manifestò anche nel corso del 1851, ma di fronte alle minacce
della polizia e dell’intendente, agli inizi del 1852 dovette
adempiere nuovamente al suo obbligo.
Nell’ottobre
del 1852 il primo ministro Ferdinando Troja comunicò
all’intendente che il re Ferdinando II da Catanzaro aveva
ordinato di permettersi il ritorno nel regno all’emigrato
Saverio Boccardi per subire il regolare giudizio. A tal fine
doveva essere munito della carta di passaggio per presentarsi
all’intendente. Seguirono le comunicazioni dell’intendente agli
ispettori di polizia di Capua e Santa Maria di Capua.
Saverio giunse
in Napoli il 2 dicembre 1852 e fu accompagnato dall’intendente
in Caserta il giorno seguente, che diede ordini all’ispettore di
polizia di accompagnarlo dal procuratore generale del re presso
la Gran Corte Criminale Palladino. Il procuratore informò il
Boccardi della cauzione di 550 ducati e questi si obbligò a
pagare, dovendo per sovrana determinazione rimanere fuori dal
carcere.
Nel frattempo
che si tenesse il giudizio il ministro dell’interno ordinò
all’intendente di attuare una stretta vigilanza sul Boccardi da
parte degli agenti di polizia.
Il giudizio
e la vigilanza della polizia
La prima
udienza a carico del Boccardi fu fissata per il 10 marzo 1853 e
questi attraverso le sue conoscenze legali si attivò per cercare
di condizionare i giudici in suo favore. I funzionari di polizia
comunicarono all’intendente che l’avvocato napoletano Girolamo
Magliano si era recato da Napoli presso tutti i magistrati
raccomandando loro il Boccardi. Inoltre il commendatore Piccioli
aveva anch’egli tali giudici per condizionarli per l’assoluzione
dell’imputato Boccardi. I personaggi contattati furono: i
giudici Mancinelli, Corte, Feoli, Barnaba, Miraglia, Merenda,
Del Porto; il commissario Rodavera e il presidente Marzocca.
Circolavano molte voci che scommettevano sull’assoluzione
dell’accusato e sulla sua imminente liberazione.
La mattina del
10 marzo l’udienza iniziò con forte ritardo perché i magistrati
arrivarono in ritardo perché impegnati in un’altra camera. Poi
giunse l’imputato accompagnato dalla forza pubblica, che poi
abbandonò subito l’aula. Il presidente Marzocca si adirò col suo
comandante per farla ritornare provocando anche un forte vocio
della folla che avrebbe preferito che l’accusato non comparisse
con i soldati al suo fianco. L’udienza fu interrotta perché i
due testimoni dell’accusa non si presentarono all’udienza e
seguì l’accompagnamento del Boccardi in prigione da parte dei
soldati, che gli riservavano rispetto e riverenza.
La causa fu
aggiornata al 15 marzo e in tale data a carico di Saverio
Boccardi fu richiesta una pena di 25 anni di ferri. Anche in
questa occasione l’aula fu gremita di folla e la condanna
comminata fu di 10 anni di prigionia.
In seguito
tale pena, su proposta del ministro di Grazia e Giustizia, fu
commutata dal re in un solo anno di prigionia. A tale gesto di
infinita clemenza di Ferdinando II dovettero seguire ulteriori
pressioni da parte di altissimi funzionari perché nel mese di
maggio il re concesse una nuova grazia al Boccardi trasformando
la pena di un anno di prigionia in 8 mesi di detenzione nel
convento dei PP. Alcantarini di Piedimonte (detto di S.
Pasquale).
Saverio
Boccardi partì per Piedimonte il 27 maggio 1853 scortato dalla
Gendarmeria reale.
L’intendente
organizzò dunque la sorveglianza del Boccardi in collaborazione
col sottintendente Andreace e l’ispettore di polizia del
circondario di Piedimonte.
In seguito fu
disposto dal Ministero della Polizia Generale il dissequestro
delle rendite del Boccardi e la restituzione delle somme versate
nella Cassa di Ammortizzazione.
Il Ministero
della Polizia Generale, l’Intendenza e gli ispettori di polizia
continuarono a sorvegliare Saverio Boccardi anche negli anni
successivi fino al 1856.

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