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"ZI' CARLUCCIO"
La montagna di San Prisco: il Monte
Tifata, è stato sicuramente il luogo, almeno per quelli della mia
generazione, dove i giovani praticanti della nobile arte si
addestravano al tiro a tordi e fringuelli.
Il Prof. Giovanni Di Monaco Della
Valle nella sua “Origine e breve cronistoria di San Prisco” – parte
2^ così lo descrive: “““““ Il monte prende il nome da “Diana
Tifatina” a cui era consacrata la parte superiore ed inferiore del
monte Tifata, ove sorgeva il tempio della dea: il bosco sacro
attraverso i monti di San Nicola, di San Prisco, Montanino, giungeva
fino al tempio di Giove sotto l'antica Caserta. Questo paesaggio era
allora molto bello, con un clima ameno ed un'area salubre, erbe
feconde e salutifere, acque medicamentose. In questa località
venivano a villeggiare gli antichi capuani e poi moltissimi
cavalieri e senatori romani, ancora oggi si ammirano i resti degli
antichi edifici. Qui sorgeva tra le altre la villa di Cicerone, che
vi si era ritirato durante il triumvirato, nei quale fu proscritto
da N. Antonio e, per non cadere nelle mani di quest'ultimo, lasciò
la sua dimora per imbarcarsi alla volta della Grecia, ma la
nostalgia di abbandonare una località si incantevole lo fece
attardare un po’ troppo, tanto che fu raggiunto dai sicari e
perdette miseramente la vita”””””.
La montagna che sovrasta il nostro
paese è composta da un massiccio principale alto 603 metri e da una
serie di colline più basse.
Negli anni 70 ha subito l’attacco da
parte dei soliti speculatori che senza alcun rispetto delle genti e
della natura, hanno letteralmente “divorato” il versante roccioso,
posto sul lato sud, lasciandoci come ricordo una voragine piena di
vecchi macchinari ed attrezzature arrugginite.
Per fortuna il versante nord è stato
preservato è tutt’ora è ricoperto da una folta boscaglia vero e
proprio polmone verde.
Un po’ più in alto, verso nord ovest,
vi è un’ampia radura che partendo dai due - trecento metri d’altezza
si estende quasi sino alla sommità della montagna principale,
trasformandosi, poi, in due canaloni fin sopra alla vetta.
Anche in questa radura l’uomo si è
insediato utilizzandola, purtroppo, come poligono di tiro
dell’esercito.
In paese tale sito è conosciuto come
“località bersaglio”.
Adiacente a questa località, verso sud
est, vi era un boschetto di querce e cerri,denominato“uscariello”che
sovrastava un piccolo appezzamento di terreno coltivato a vigna ed
olivo.
Quello era il terreno di zì
Carluccio.
Al centro di questo podere mio padre
aveva costruito uno dei suoi famosi
pagliarielli.
I pagliarielli di mio padre avevano
tutti la stessa caratteristica: erano altissimi.
Infatti, quando se ne vedeva qualcuno,
e ve ne era disseminato tutto il territorio di caccia della montagna
di San Prisco, subito si esclamava: “questo
è ipagliariello del “capo”.
Al lato sinistro di zì Carluccio,
tenendo le spalle al terreno, quasi sul bordo esterno di un costone
( detto “puntetto”) e immediatamente prima dell’inizio dell’
“uscariello”, vi era un altro pagliariello, più piccolo.
Quello era il nostro capanno: mio e di
Mimmo Carrillo
(da tutti affettuosamente chiamato “Mimmuccio”).
La caccia da zì carluccio era una
caccia prevalentemente di appostamento praticata quasi sempre di
pomeriggio, al “rientro”. Infatti, il boschetto posto alle
spalle dei capanni era il rifugio notturno preferito da fringuelli
(a quell’epoca si potevano cacciare) e tordi.
Quanti ricordi si accavallano al
rievocare quei luoghi. Il mangiare in fretta un boccone appena
tornati da scuola nell’impazienza dell’imminente cacciata.
Attendere a casa mia l’arrivo di
Mimmuccio con il quale ci si recava subito nella “stanza della
caccia” dove in pochissimo tempo ci si adoperava a ricaricare
una ventina di cartucce per il mio fucile: un Beretta calibro 28
basculante ad una canna e soprattutto con un colpo solo.
Infilarsi a volo nella bianchina di
papà e via. Da Zi Carluccio.
In quel momento iniziava l’avventura.
A quell’epoca per giungere al
bersaglio si doveva percorrere un vero e proprio sentiero di
guerra.
Specialmente nell’ultimo tratto,
costituito da una strada sterrata e piena di avvallamenti, cosparsa
di grandi ciottoli che bisognava dribblare come dei giocatori di
calcio.
Per mio padre il guidare su quel
terreno così accidentato costituiva una vera e propria prova di
abilità automobilistica, per noi ragazzi le cose erano più dure.
Infatti, quasi alla fine del percorso vi era una salita ripidissima
dove la povera bianchina arrancava da fare pena.
In cuor nostro si sperava sempre che
la macchina c’è la facesse a salire ma sempre arrivava la
delusione con l’ordine perentorio di papà: “scendete”.
Allora bisognava scendere e iniziare a
spingere, fin sopra il limite della salita. Uno sforzo enorme.
Ma tant’era la gioia e l’impazienza di
recarci a caccia che la fatica non veniva minimamente avvertita.
Giunti finalmente nei pressi di uno
spiazzale usato come parcheggio, si fermava la macchina e si
iniziava con gran passo, mio padre in testa, a dirigerci verso
i pagliarielli.
Di norma, si arrivava sempre in tempo
e ci si posizionava in questo modo: papà nel pagliariello grande al
centro di Zi Carluccio io e Mimmuccio sul puntetto.
Dopodichè bisognava solo aspettare.
Il rientro vero e proprio
iniziava tra le 15,30 e le 16,00 e prima di quell’ora poteva
arrivare solo qualche sporadico uccello che spaventato per qualche
motivo iniziava prima la risalita.
Nell’attesa, abbastanza lunga perché
al massimo per le 13,30 già eravamo sul posto,
io e Mimmuccio fantasticavamo sulle varie opportunità che ci avrebbe
offerto la giornata di caccia.
Specialmente sulle condizioni meteo,
se c’era vento era meglio perché gli uccelli sarebbero risaliti più
bassi.
Ma soprattutto si stava sempre
all’erta cercando con lo sguardo e con l’udito la presenza di
eventuali guardacaccia, a quell’epoca non si aveva ancora i fatidici
16 anni utili, all’ora, per il rilascio della licenza di caccia.
Proprio questo continuo stato di
allerta un giorno ci causò uno spavento che poi si rivelò in una
situazione, ripensandoci dopo, che ancora oggi è fonte di grande
ilarità.
Eravamo appena giunti sul puntetto e
come al solito ci posizionammo dietro il capanno accucciandoci e
caricando il “28”, quando ad un tratto intravedemmo fare capolino,
da dietro il limitare del costone di fronte a noi, la punta di un
berretto che noi subito collegammo alla testa di un “guardiacaccia”.
In un lampo già ci vedevamo dietro le
sbarre, e soprattutto privati della possibilità di prendere la
licenza in futuro.
Questi pensieri, lo scaricare il
fucile, piegarlo, nasconderlo sotto un cespuglio e scappare a gambe
levate verso la cima del costone roccioso furono un tutt’uno.
Una volta raggiunta la cima ci
infilammo a volo in un ammasso di rovi, le spine sembravano
bambagia: non si avvertiva nulla. Così acquattati con gli occhi
ipnotizzati fissi sul cappello che man mano si andava
materializzando, si attendeva il passaggio del losco figuro.
Quando questi giunse nei nostri pressi
grande fu lo stupore di leggere le due iniziali poste a caratteri
dorati e cubitali al centro del berretto: “N.U.” Nettezza
Urbana…………… era lo spazzino del paese. Tutte le altre volte, invece,
la cacciata si svolgeva tranquillamente.
Ricordo ancora l’emozione di avvistare
il tordo da lontano che, quasi sull’abitato di San Prisco, si
direzionava verso di noi.
L’appiattirci al terreno, seguire il
volo attraverso una piccola fessura tra le frasche, l’avvicinarsi
del volatile, prendere con estrema cura la mira, si faceva un colpo
a testa, e poi cercare di non spadellare perché si aveva un solo
colpo…………..una sola possibilità.
Mimmo Pagano
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